Dalla parte della Terra: i climate cases e la tutela dell’ambiente nella Costituzione

Nel momento in cui scrivo, mancano esattamente 7 anni, 98 giorni, 16 ore e 56 minuti prima che l’aumento della temperatura media globale raggiunga i 1,5 gradi. E poi che succede? Secondo l’ultimo report dell’IPCC, il gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite che valuta i cambiamenti climatici e i loro potenziali impatti ambientali e socio-economici, con un innalzamento di 1,5 gradi ci troveremo ad affrontare con sempre più frequenza eventi estremi e catastrofi climatiche, come la siccità, le inondazioni, le ondate di calore e le precipitazioni anomale. 

Eventi di cui abbiamo testimonianza già oggi, e che sempre più spesso mettono a repentaglio la vita e la salute di migliaia di persone, costringendole alla fuga. Il centro di monitoraggio per gli sfollati interni (IDMC), infatti, conta circa 40mila sfollati interni nel 2020, di cui solo 30mila a causa dei disastri meteorologici. Questi fenomeni peraltro oggi riguardano in maggioranza i Paesi meno industrializzati e le comunità più dipendenti dalle risorse naturali, andando ad acuire il già profondo divario tra diverse zone del mondo.

Già ad agosto 2021 lo stesso IPCC ci aveva avvisati che, in assenza di riduzioni immediate, rapide e su larga scala delle emissioni di gas serra, limitare il riscaldamento a circa 1,5 gradi o addirittura 2 gradi diventerà un obiettivo fuori da ogni portata. Bisogna correre, quindi, ma forse non tutto è perduto. Nell’ultimo comunicato stampa, il Presidente dell’IPCC Hoesung Lee si è detto infatti “incoraggiato dall’azione climatica intrapresa in molti paesi”, e questo ci fa ben sperare che un’inversione di rotta sia ancora possibile.

Davanti a queste previsioni a metà tra il catastrofismo e il cauto ottimismo, una cosa è certa: le giuste politiche e i giusti investimenti possono salvare il nostro Pianeta. E noi, intanto, che facciamo? Attendere passivamente che i nostri decisori prendano le giuste – appunto – decisioni non è un opzione. Questo perché non c’è nulla che ci riguardi di più del luogo in cui viviamo. E anche se oggi le conseguenze dei cambiamenti climatici possono sembrarci qualcosa di molto distante, basta dare un’occhiata al bilancio del 2021 dell’Osservatorio di Legambiente CittàClima per accorgersi che la crisi climatica è arrivata anche in Italia. Per rispondere alla domanda sopra, quindi, non ci resta che agire.

Oltre ai semplici ma importanti gesti quotidiani che ognuno di noi può porre in essere, c’è chi ha pensato bene di “agire” anche nel significato legale del termine. I cambiamenti climatici, infatti, non sono solo una questione ambientale, ma anche una questione politica, sociale ed etica, in quanto mettono a repentaglio una serie di diritti tra cui, come abbiamo accennato, quelli alla vita e alla salute. Per tale motivo, da qualche anno si è fatto strada uno strumento innovativo di lotta al cambiamento climatico, quello dei climate cases. I climate cases sono contenziosi climatici contro gli Stati volti a sancire la loro responsabilità in materia climatica. Lo Stato, insomma, viene messo sotto processo per questioni ambientali. E quale luogo migliore per vedere riconosciuti i propri diritti, se non un processo? Il fenomeno è in continua crescita: secondo il report della London School of Economics e del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment, a livello mondiale il numero complessivo di casi relativi ai cambiamenti climatici è più che raddoppiato dal 2015: da più di 800 casi tra il 1986 e il 2014, si è passati a oltre 1.000 casi avviati nel corso degli ultimi sei anni.

Ma i climate cases non sono tutti uguali. A seconda del contenuto del loro contenuto, infatti, possiamo dividerli in strategici e non strategici. I secondi sono quelli in cui il diritto delle parti attrici prevale, in cui la causa viene concentrata maggiormente su interessi di natura soggettiva e personale. I casi strategici, invece, sono confezionati al fine di provocare un cambiamento più ampio nelle politiche dello Stato, mettendo in secondo piano le posizioni individuali. Banale dirlo, ma sono proprio i casi strategici a rappresentare lo strumento più efficace: tramite questo tipo di azioni, infatti, non solo viene dato un segnale forte allo Stato, ma vengono giudizialmente riconosciuti diritti e principi che si spera vengano successivamente traslati sul piano legislativo. Ne è un esempio il caso Urgenda (2015) contro il governo olandese, nel quale la Corte distrettuale dell’Aia ha riconosciuto l’obbligo dello Stato di prevenire cambiamenti climatici pericolosi. Ma anche il caso francese (LAffaire du Siècle), a conclusione del quale nel 2021 il Tribunale Amministrativo di Parigi ha riconosciuto per la prima volta la responsabilità climatica della Francia. E non dimentichiamoci la causa italiana ancora in corso nell’ambito della campagna Giudizio Universale, portata avanti da 162 adulti, 17 minori e 24 associazioni, con l’obiettivo di condannare lo Stato per inadempienza climatica e per la violazione dei diritti ad essa connessi. 

La straordinarietà di queste iniziative non si gioca solo sul loro contenuto, ma anche sui soggetti coinvolti. Cittadini, studenti, attivisti, fondazioni ed associazioni sono infatti i protagonisti attivi dei climate cases, a dimostrazione del fatto che l’impegno civico e ambientale non ha età né estrazione sociale. E a proposito di età, straordinaria per le sue caratteristiche e dimensioni è la causa intentata da sei giovanissimi ragazzi portoghesi dai 9 ai 22 anni contro 33 Stati membri del Consiglio d’Europa (Italia compresa), davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, causa di cui vi invito a seguire i risvolti qui. 

I climate cases strategici non hanno solo il merito di responsabilizzare gli Stati, ma inaugurano anche un nuovo modo di guardare all’ambiente. Da una visione antropocentrica dell’ambiente come risorsa e luogo in cui l’essere umano ha diritto a una vita salubre, si passa a una concezione di ambiente come bene che lo Stato deve tutelare e proteggere in sé. È proprio questa la visione che è entrata a far parte della nostra Costituzione con la modifica approvata a febbraio di quest’anno. Tramite l’integrazione dell’articolo 9, infatti, viene sancita espressamente la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. Il riferimento alle future generazioni riflette inoltre la dimensione temporale della crisi climatica, i cui effetti si manifestano anche a distanza di decenni dal momento in cui vengono prodotte le emissioni che li provocano. All’articolo 41 viene poi specificato che l’iniziativa economica privata d’ora in avanti è sottoposta ad un ulteriore vincolo: quello di non creare danno alla salute e all’ambiente. Insomma, l’ambiente diventa un bene costituzionalmente protetto, offrendo un riferimento giuridico di massimo livello per tutte le istanze di protezione degli equilibri ambientali e dei diritti umani ad essi legati, climate cases compresi.

Il limite dei contenziosi climatici, però, risiede nel fatto stesso di essere “solo” dei contenziosi. Le Corti nazionali e internazionali con le loro sentenze non possono salvare il Pianeta, ma possono solo spianare la strada all’intervento dei legislatori nazionali. Solo chi esercita il potere di governare e legiferare potrà determinare le strategie ed attuare politiche di contrasto al cambiamento climatico, e i giudici non possono strutturare le policy ambientali. Se tutto questo è vero, però, non si può non riconoscere al contenzioso climatico l’importante ruolo di strumento di pressione verso politiche ambientali più ambiziose. E chissà che, quando la cooperazione internazionale e il dialogo tra Stati in materia climatica si inceppa, i climate cases e i loro esiti possano venire in soccorso.

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