Chi ci segue da un po’, saprà bene ormai che a giugno abbiamo lanciato l’iniziativa CIVIC PLACES, i luoghi del noi, per la ricerca e la mappatura di quei luoghi dove si incontrano storia, bellezza, inclusione e progettualità.
Abbiamo incontrato Gregorio Arena, membro del Comitato scientifico dei CIVIC PLACES e Presidente di Labsus, uno spazio di ricerca e riflessione che dal 2005 promuove ricerche e studi sul tema della sussidiarietà, sancito dalla nostra Costituzione all’art. 118, ultimo comma. Dalla sua nascita Labsus ha affrontato il tema della cura dei “beni comuni” intesi anche come spazi fisici di cooperazione e collaborazione tra cittadino e istituzioni pubbliche. Distribuire la responsabilità, la cura del bene pubblico, rende concreta la definizione di comunità e l’iniziativa di CIVIC PLACES va proprio in questa direzione.
Il tema dell’amministrazione condivisa oggi è declinato soprattutto a livello locale, per la gestione di singoli beni. È un approccio che si può applicare in altri campi e su ampia scala?
«Pensare di riprodurre su scala più generale ciò che avviene quando i cittadini di una comunità si organizzano per farsi carico di uno specifico bene comune è un processo delicato, che introduce temi organizzativi ed economici. Inoltre, evoca il rischio che dalla sussidiarietà si passi alla sostituzione, fornendo al pubblico un motivo per ritirarsi in quanto i cittadini sarebbero in grado di organizzarsi da soli. In ogni caso, anche se la cura di uno specifico bene comune può sembrare un intervento “minore”, in realtà non bisogna dimenticare che si tratta sempre di azioni che creano legami comunitari e producono beni relazionali. Per quanto a volte piccoli, questi gesti di cura hanno un grande valore come generatori di comunità, veri e propri antidoti alla solitudine».
Dunque la cura dei beni comuni crea legami e, nel migliore di casi, propone un nuovo modello di sviluppo territoriale.
«Ne parlo nel libro I custodi della bellezza: i cittadini che si prendono cura di spazi verdi, di scuole o di beni culturali in realtà gettano le basi di una comunità più allargata, alla quale può partecipare anche chi non interviene materialmente ma comunque si impegna a sostenere le iniziative per rendere il proprio quartiere più accogliente. Non solo: i meccanismi che si mettono in movimento possono valicare lo spazio circoscritto, estendendosi anche a persone estranee per renderle partecipi della custodia di singoli beni, con l’effetto di far crescere il territorio attraverso una pluralità di contributi».
La cura dei beni comuni richiede una comunità già attiva o può essere il modo per creare le condizioni perché la comunità si riscopra e rinasca?
«Con Labsus abbiamo analizzato migliaia di patti di collaborazione nati nell’ultimo decennio in tutt’Italia. È interessante il modo in cui un patto si crea. L’avvio è spesso molto informale e non sfrutta solo capitale sociale già esistente ma ne genera di nuovo. Per questo nei regolamenti comunali per l’amministrazione condivisa promossi da Labsus si specifica sempre che il bene di cui ci si prende cura non può in nessun caso essere “privatizzato”. Il patto è sempre aperto a nuove integrazioni ed è importante tenere presente che i cittadini si attivano non tanto e non solo per la cura di un generico bene comune ma innanzitutto perché vogliono stare bene loro. La spinta iniziale è un bisogno materiale e un interesse individuale. Anche se poi quel che si fa va anche a vantaggio degli altri».
Tocqueville parlava di “Self interest rightly understood”
«Con Labsus abbiamo analizzato migliaia di patti di collaborazione nati nell’ultimo decennio in tutt’Italia. È interessante il modo in cui un patto si crea. L’avvio è spesso molto informale e non sfrutta solo capitale sociale già esistente ma ne genera di nuovo. Per questo nei regolamenti comunali per l’amministrazione condivisa promossi da Labsus si specifica sempre che il bene di cui ci si prende cura non può in nessun caso essere “privatizzato”. Il patto è sempre aperto a nuove integrazioni ed è importante tenere presente che i cittadini si attivano non tanto e non solo per la cura di un generico bene comune ma innanzitutto perché vogliono stare bene loro. La spinta iniziale è un bisogno materiale e un interesse individuale. Anche se poi quel che si fa va anche a vantaggio degli altri».
Così un luogo pubblico diventa un CIVIC PLACE.
«È il motivo per cui ho aderito al progetto. Qualsiasi luogo può diventare un CIVIC PLACE, qualsiasi bene pubblico può diventare un bene comune se i cittadini si assumono la responsabilità della sua cura. I beni privati sono “miei” e quindi me ne prendo cura con attenzione, mentre i beni pubblici non sono avvertiti come “nostri”, bensì “di nessuno” e quindi vengono depredati. Ma quando si crea un legame fondato sulla cura tra un bene pubblico e i cittadini, questi ultimi ne diventano responsabili alla pari del proprietario. Un luogo percepito come “nostro” dai cittadini viene curato e difeso. Diventa parte di una bellezza che si autodifende, di cui i cittadini sono custodi».
Dal suo punto di osservazione in che stato di salute è il capitale sociale in Italia?
«Da “giurista di strada”, portatore di fiducia, in questi ultimi quindici anni ho viaggiato in tutti gli angoli del nostro Paese incontrando un’Italia che non fa notizia eppure esiste. Centinaia di migliaia di persone attive, leader di piccole comunità, giovani che si prendono cura dei beni comuni perché amano la concretezza di questo tipo di azioni. Persone che sanno cosa rispondere alla domanda “perché non lasci che se ne occupi qualcun altro, magari lo Stato?”. Se questo non è capitale sociale, allora cosa lo è?»