Stiamo davvero avendo paura della guerra? Si. Davvero.
Siamo provati da due anni difficili, continuamente in preda all’esasperazione e, al tempo stesso, anche al senso di colpa di non sentirsi abbastanza grati per essere, come dire… Salvi.
Ci sono situazioni che le nostre esperienze e la nostra educazione (sociale, scolastica, civile) ci hanno insegnato a percepire come remote, improbabili, e anche ingiuste. Eppure stiamo tutti pensando alla guerra davvero, in queste ore, in questi giorni? Si, lo stiamo facendo.
Le crisi geopolitiche, i conflitti e le azioni belliche in realtà sono una costante del pianeta terra. Oggi, però, siamo attanagliati da una tensione che si sta sviluppando e sta scuotendo gli animi proprio qui, dietro l’angolo. E il fatto di sentire il nostro coinvolgimento in modo più diretto, questa volta, ci sta angosciando e pure facendo riflettere anche su quello che succede “lontano” da casa nostra e da sempre.
Questo non è un articolo sulla disamina delle dinamiche politiche ed economiche che muovono la Russia (anzi, Putin). Qui non vogliamo analizzare né la storia passata né le prossime future mosse belligeranti di chi, quest’ultimo conflitto, lo sta dirigendo e arricchendo di immagini spaventose e ripugnanti, minuto dopo minuto.
Vorrei solo poter raccogliere, in qualche riga preoccupata, i sentimenti di chi ha la “fortuna” (come me) di parlare di guerra da un divano.
Da giorni la ricerca quasi ossessiva di aggiornamenti, di agenzie dell’ultima ora, scandisce il tempo, segna i risvegli, (non) dà la buonanotte. Mal di testa, nausea, pesantezza del cuore.
Avere la pretesa di saperne un po’ di più del collega o dell’amico, e la consapevolezza di non saperne abbastanza: e per entrambe le sensazioni, sentirsi in colpa.
Chiedersi se è giusto continuare una vita “normale”, farsi una foto con gli amici, postare un meme divertente, trovare sbagliata ogni scelta in merito. Credere che tutto finirà presto, o sentirne l’illusorietà. Infine, sentirsi sole/i.
In particolare, in questi ultimi giorni, sto profondamente ricercando gli abbracci delle persone a cui voglio bene, voglio sentire l’amore, che è l’unico sentimento che protegge l’anima, quando intorno c’è il resto che crolla. La mia famiglia vive in un’altra città e non vedo l’ora di rivederla e di sentire gli occhi di mia mamma su di me e riprovare l’illusione, per un istante, di essere al sicuro.
Sembrerà persino egoistico, da parte mia, parlare di illusione. Sempre da questo comodo divano. Eppure io credo che intere generazioni sul divano, in questo momento (e da qualche tempo) assaggino giorno dopo giorno il terrore della precarietà, dell’insicurezza, del “tutto potrebbe succedere” e non con la sua accezione ottimistica e di speranza.
Si, si può parlare di terrore anche da una casa sul cui cielo volano aerei di linea e non militari. Possiamo avere il diritto di sentirci a rischio senza sentirci in colpa di non esserlo.
Parlo per i miei coetanei, i millennial (ma il discorso può essere perfettamente ampliato a chi è venuto prima e a chi subito dopo), cresciuti con la consapevolezza della precarietà della vita, ma la sua essenza ingiusta e dolorosa – che ultimamente ci viene sbattuta in faccia – fa più male di quanto non fossimo pronti a sopportare.
Dopo due anni duri ed estremamente altalenanti (come i nostri stati d’animo) ci viene tolto il diritto di nutrire delle nuove speranze, di forgiare l’ottimismo, ci strappano la voglia di condire con il sorriso i giorni che verranno. E ci sentiamo inutili. Di nuovo.
Che odioso senso di impotenza. Noi che ci svegliamo la mattina per andare a lavorare (quando abbiamo la fortuna di poterlo fare) per riempire le nostre giornate di compiti da portare a termine e, alla sera, siamo schiacciati da quella sensazione che, in realtà, non abbiamo fatto del nostro meglio: che siamo serviti a qualcosa, e mai a qualcuno.
Esiste un comportamento adeguato da adottare? Cosa possiamo dire e pensare che ci renda persone migliori? Dobbiamo mostrare al mondo quanto siamo tristi, oppure solo stare in silenzio, nel rispetto delle persone che stanno soffrendo davvero?
Sono giorni che non ci chiediamo altro, ammettiamolo. Sono giorni che oltre all’angoscia di una situazione incredibilmente pesante e ingiusta, subiamo la preoccupazione di stare sbagliando qualsiasi cosa facciamo.
Mi sono confrontata con questi attanaglianti dubbi, nello specifico, Ieri sera ad esempio. Ho pubblicato una story su Instagram: io e tre miei amici, un bicchiere in mano, vicini e sorridenti. Era un momento per me rilassato e, azzardo, spensierato.
Stamattina al mio risveglio ho pensato che avessi dato voce a superficialità, noncuranza, frivolezza. Che non è da me, che in realtà io sto male, e voglio che tutti lo sappiano, che gli altri non vedano “la vita che continua, nonostante tutto”.
Ci meritiamo questa tregua? Quanto è scorretto sorridere davanti a un bicchiere di vino? Dobbiamo esprimere rabbia e commozione, chi ci dà il diritto di “divertirci”?
Poi penso profondamente che l’unica vera risposta ai miei dubbi e alle mie perplessità sia il rispetto. E parlo di una scelta che abbiamo la possibilità di esercitare ogni singolo istante di ogni singolo giorno. Anche la foto felice con gli amici sembra all’improvviso giusta e non più fuori luogo.
Perché forse abbiamo bisogno più di sorrisi che di sensi di colpa. Dobbiamo nutrirci di affetto e non di giudizi. Nel nostro piccolissimo, la ricerca della pace (che parte da quella interiore e si espande nel mondo) inizia proprio dalle azioni quotidiane che alimentano il cuore.
Non voglio vivere nell’illusione che il bene vincerà sempre sul male, perché sarebbe utopico e indurrebbe gli animi ad assopirsi e a non battersi più laddove necessario; voglio però credere che la giustizia e il buonsenso saranno sempre i due pilastri imbattibili di una struttura molto complessa e labirintica. E grazie a loro, anche dalle crisi più profonde si potrà venire fuori.
Non trovo scorretto continuare a vivere, non trovo fuori contesto continuare a coltivare frivolezze; non possiamo permetterci, ancora e ancora, che i nostri animi siano appesantiti in questo climax ascendente di momenti bui che ci sta travolgendo. Non ce lo meritiamo. E, forse, questo via libera che ci manleva dal senso di responsabilità, di colpa e di incertezza, lo percepiamo troppo spesso come remoto, anacronistico.
Vivere non significa disinteressarsi alle questioni che ci circondano (più o meno vicine), la felicità è un diritto di ognuno di noi a prescindere dalla malvagità del mondo intorno.
Il dolore personale, con il quale espiamo le colpe degli altri, è probabilmente un retaggio sociale e religioso, ci scorre nel Dna. In questo periodo storico, non farci fagocitare dal malessere è un’impresa, è vero. Ma non perdiamo mai di vista chi siamo, il buono che possiamo riversare sul mondo, l’energia positiva che siamo in grado di generare e trasmettere con le nostre esistenze, tutte importanti, tutte essenziali con la loro delicatezza e profondità.
E allora mi sento solo di non perdere di vista quella piccola minuscola vena di leggerezza che un po’ mi appartiene, nonostante tutto il male, nonostante tutto il buio. Spero che ognuno di noi riesca a farla emergere, sebbene costi fatica, cura, particolare audacia.
Mi auguro che non abbandoniamo noi stessi, che non perdiamo di vista le piccole cose che ci commuovono, che ci fanno sentire in armonia con la natura e con gli altri, che ristabiliscono gli equilibri della nostra compresenza con le cose che ci circondano, e la connessione con queste. Coltiviamo l’empatia di cui siamo portatori sani e restituiamola al mondo; diamoci la possibilità di farci rispettare dalle nostre stesse vite, in questo pazzo pazzo mondo.