Musica leggera per cervelli impegnati

Quand’è l’ultima volta che avete ascoltato una canzone? Personalmente, qualche minuto fa mentre camminavo verso casa. Ok, questa era facile. E se vi chiedessi di pensare ad un intero giorno in cui non l’avete fatto? Nemmeno una canzone, nemmeno una nota, nemmeno un canticchiare di un passante. Impossibile. Mi viene difficile immaginare anche solo una singola giornata senza aver ascoltato una canzone, o una melodia qualsiasi. C’è musica nei bar, nei ristoranti, negli ascensori, nei parchi, alle mostre, nei supermercati, nelle palestre e nei negozi di vestiti. La giusta melodia ci fa concentrare, ballare, rilassare, allenare, e ci aiuta a sopportare spostamenti più o meno lunghi (non so voi, ma io non riesco a reggere nemmeno un viaggio di dieci minuti senza cuffiette). Insomma, ovunque è musica. Per dirla con le parole del compositore Luciano Berio: “La musica è tutto quello che ascoltiamo con l’intenzione di ascoltare musica […] tutto può diventare musica” (1993).

Se davvero tutto può diventare musica, e la musica sta dappertutto, tanto che si è iniziato a parlare di “inquinamento musicale”, forse vale la pena chiedersi quale ruolo assuma nelle nostre vite. Per farlo, partiamo dalle basi. La musica è innanzitutto un’arte, e in quanto tale possiede un autonomo valore, appunto, artistico. In questa accezione, la musica conduce al godimento estetico, lo stesso godimento provocato da qualsiasi forma d’arte, dalla danza alla pittura. Dal lato del singolo fruitore dell’esperienza musicale, il dato estetico si collega a quello emotivo: già Platone considerava la musica capace di parlare direttamente alla parte irrazionale dell’anima, provocando sensazioni ed emozioni, tanto negative quanto positive.

L’essere umano, però, non è solo un fruitore passivo della musica, ma anzi ne è il primo creatore. È proprio per questo che John Blacking, etnomusicologo britannico, alla domanda “How musical is man?” (letteralmente, “Quanto è musicale l’uomo?”), risponde con una definizione di musica che ci riporta alla sua dimensione prima di tutto umana, e poi sociale. Secondo Blacking, infatti, la musica è “suono umanamente organizzato”, espressione diretta dell’esperienza umana all’interno della società. Insomma, l’essere umano fa musica, e musica e società sono strettamente collegate. In che modo?

Esiste innanzitutto una parte dell’esperienza musicale che scandisce, accompagna e si integra negli aspetti dell’esistenza collettiva. Dalle funzioni cerimoniali a quelle di intrattenimento, dalle antiche pratiche legate alla caccia o alla guerra, dalla scansione dei tempi lavorativi alle ricorrenze liturgiche, dalle feste di corte alle serate in discoteca, il suono musicalmente organizzato rappresenta e rappresentava parte integrante di eventi, ordinari e straordinari, che coinvolgono gli individui nella vita associata.

Il rapporto tra musica e società, però, è tutt’altro che lineare. Se come abbiamo visto la musica talvolta fa da sfondo alla nostra vita in società, altre volte invece vuole minarne le fondamenta. È il caso della c.d. “musica impegnata”: canzoni di protesta o di rivendicazione che mirano a veicolare uno specifico messaggio e a spronare le coscienze, affrontando tematiche sociali sempre più urgenti.

Quali sono gli ingredienti per una canzone di protesta perfetta? Non c’è una risposta unica. Alcune canzoni, come Killing in the name dei Rage Against The Machine (1992) o la più recente I Can’t Breathe di H.E.R (2020), puntano il dito contro il razzismo e i soprusi della forza pubblica. Altre, invece, affrontano tematiche legate alla sfera personale, come Take Me To Church di Hozier (2014), che tocca temi come sessualità e orientamento sessuale, rivendicandone la libertà contro le censure imposte dai dogmi confessionali. Altre ancora attirano l’attenzione su questioni sempre più urgenti, quale l’ambiente e l’ecologia. A questo proposito, tornando in Italia, non si può non citare la celebre Il ragazzo della Via Gluck di Adriano Celentano (1966), che a suon di “Là dove c’era l’erba ora c’è Una città” denuncia l’impatto che l’uomo ha sull’ambiente e sui paesaggi naturali. Per non parlare delle canzoni contro la guerra! Chi non conosce Imagine di John Lennon (1971), l’inno alla pace per eccellenza? Chi di noi non ha mai sentito almeno una volta La guerra di Piero di Fabrizio De André (1966)? Sono numerosi quei testi che, negli anni, hanno denunciato la tragicità e l’assurdità della violenza e della guerra, talvolta descrivendone anche episodi specifici; pensiamo a Sunday Bloody Sunday degli U2 (1983), doloroso ricordo di una sparatoria che uccise 14 persone, nell’imperversare delle proteste per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord. Insomma, la musica impegnata “[…] esprime ciò che non può essere detto e su cui è impossibile rimanere in silenzio” (Victor Hugo), e i suoi interpreti si fanno, tramite le loro voci, attivisti.

La musica impegnata rappresenta certamente una parte molto importante della nostra cultura musicale, anche per i suoi evidenti risvolti (effettivi, o auspicati) sulla società e sulle coscienze individuali. Ma la canzone non può essere solo protesta, denuncia e significati profondi. Diciamocelo, ogni tanto abbiamo bisogno di un po’ di frivolezza. E per tutte quelle volte in cui non abbiamo voglia di niente, quale miglior antidoto se non un po’ di musica leggera? Sì, lo so, sicuramente vi è venuta in mente Musica leggerissima di Colapesce Dimartino (2020), ma la “musica leggera” è anche un vero e proprio genere musicale, meglio conosciuto come genere “pop”. Questo tipo di canzoni si caratterizza per il linguaggio semplice, la spiccata orecchiabilità, un ritmo chiaro e la brevità dei brani. Niente messaggi più o meno nascosti, niente critiche o prese di posizione, solo del puro e sano intrattenimento. Restando in Italia, quale miglior esempio di musica-intrattenimento se non il Festival di Sanremo? E parlando di festival, i sempre più numerosi talent show musicali rappresentano un terreno fertile proprio per la musica leggera, disimpegnata, in cui amiamo immergerci alla ricerca di un po’ di svago o distrazione.

Siamo partiti chiedendoci che ruolo avesse la musica all’interno dei nostri mondi, e abbiamo concluso che ne ha più di uno. Può accompagnare eventi e momenti di coesione sociale, può veicolare messaggi e scuotere le nostre coscienze, oppure può semplicemente intrattenere. Non c’è una funzione più importante dell’altra, e anzi il più delle volte un singolo brano ne porta con sé più di una. Tutte però sono accomunate da un minimo comune denominatore: noi. Siamo noi che facciamo musica, e questo ci basta per abbandonare un’ottica prettamente consumistica ed immergerci in un rapporto più profondo, di attenzione. Ascoltando con un orecchio diverso, infatti, potremmo accorgerci che la canzone che canticchiamo sempre in modo distratto in realtà vuole dirci qualcosa di importante, o magari no.

Non c’è altro modo di scoprirlo che provare: ci state?

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