Parola da salvare: piazza

La piazza, da che l’uomo ha scelto di vivere in comunità, è stata il centro in cui la società ha innestato i suoi cardini: lavoro, commercio, divertimento, relazioni. È stato così per millenni, e per millenni sembrava che nulla avrebbe potuto forzare un paradigma tanto radicato, perfino naturale. Fino a quando è arrivata la rete.

La rivoluzione digitale ha capovolto l’orizzonte: quella piazza verso cui ci riversavamo è collassata in una dimensione intima, domestica. Lo smottamento è esploso in tutta la sua evidenza con la crisi pandemica che non ha fatto altro che accelerare un processo già in corso: il flusso vitale non attraversa più i luoghi di condivisione, diventa schermo, informazione, dati.

Ecco allora che la piazza, come simbolo di aggregazione, si fa bolla, personale, individualista, in qualche modo disinteressata, innervata dalle dinamiche dei social che la cristallizzano in nuove forme di autarchia. Condividere non significa più fare esperienza comune di situazioni, sentimenti ed eventi; significa esibire al mondo un’esperienza di cui siamo i soli protagonisti, e tanto più è esclusiva e tanto più valore reputazionale sembra attribuirci.

Sembrava questa la direzione tracciata dalla nostra età digitale: è più facile raggiungere l’altra parte del mondo con un click, piuttosto che scendere le scale e raggiungere la piazza più vicina, piazza peraltro che conosciamo come le nostre tasche e sembra tanto lontana dai luoghi dove si costruisce il futuro. Ma il domani è un tiro di dadi, e per quanto possiamo tentare di truccarli, qualcosa del loro rotolare sfuggirà sempre al nostro dominio. E così, proprio la crisi pandemica, sconvolgendo abitudini e routine che sembravano consolidate, ci ha precipitato nel futuro con un balzo. Il bozzolo casalingo, eletto a Eden da cui non avremmo mai voluto essere scacciati, si è trovato spogliato dei tratti paradisiaci e ha assunto i confini della prigione. Certi giorni immobili alla finestra, a puntare il dito contro gli evasi che facevano jogging o portavano fuori il cane sfidando un pericolo invisibile, hanno mosso pensieri la cui urgenza ci sembrava dimenticata: è là fuori che vogliamo stare, là fuori che si consuma la vera esperienza: la vera – suona ridicolo dirlo, eppure è così – vita.

E allora, alla ricerca come siamo di simboli vecchi e nuovi che diano forma a un immaginario all’altezza del presente, la piazza torna a raccontare l’esigenza di mescolarsi, di allacciarsi in connessioni immediate, fisiche. Le nuove generazioni, sempre un passo avanti e, più di tutti, orfane di uno sguardo collettivo, avevano già mosso i primi passi in questa direzione (pensiamo alla gioia e alla potenza dei Fridays for Future inaugurati da Greta Thunberg), ma oggi la rotta sembra generale. E non è solo una questione di protesta o di lotta, è la riappropriazione di una dimensione a cui, troppo a lungo, abbiamo rinunciato: il ritorno alla polis, alla cosa pubblica, come forma di riconoscimento dell’essenziale natura sociale dell’animale uomo. E non deve spaventare il fatto che, troppo spesso, la piazza si presti agli abusi della folla, tra violenze e fanatismi: è solo una deviazione di un contesto altrimenti benevolo. Non è un caso che il termine spiazzare – etimologicamente “scacciare dalla piazza” – significhi strappare orientamenti ed equilibri. Fuori dalla piazza si è perduti, fuori dalla piazza si resta soli. Perché la piazza, prima che un luogo fisico, è principalmente teatro di socialità.

Vengono in mente le parole di Gaber quando offrì la sua idea di libertà: “La libertà non è star sopra un albero / Non è neanche il volo di un moscone / La libertà non è uno spazio libero / Libertà è partecipazione.” È in piazza, e aggiungiamo: solo lì, che resta possibile pensare a un futuro che sia figlio di uno sguardo largo e davvero condiviso.

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