Parola da salvare: robot

Robot è una parola piena di incanto. Non c’è un solo bambino che non se la sia messa in bocca sentendo un sapore di grandiosità, di soggezione, di futuro. La fantasia corre dietro a scenari di robot che camminano al nostro fianco, salutandoci quando li incrociamo al parco. Poi, crescendo, all’incanto subentra il sospetto, e i robot improvvisamente fanno paura. E se ci rubassero il lavoro? E se si rivoltassero contro di noi? E se, insomma, ci sostituissero, più forti, più ingegnosi, più immortali come sono?

È una paura che nasce dall’abusato concetto di intelligenza artificiale. Quell’intelligenza di cui ci beiamo, che sbandierano per vantare una presunta superiorità sulle altre creature, quella stessa intelligenza di cui avevamo il monopolio ora sembra improvvisamente aperta al libero mercato della tecnologia. Una lunga fila di automi è in attesa di ricevere la sua quota, tanti spaventapasseri di Oz in attesa del loro cervello; a quel punto, cosa succederà? Peccherò di cecità e ottimismo ma voglio dire: niente.

Intelligenza artificiale è uno dei matrimoni lessicali più infelici della storia. Le due parole – intelligenza e artificialità –, costrette a convivere, si guardano e si chiedono: Ma io e te, che c’entriamo l’una con l’altra?

Certo, ci sono macchine che fanno calcoli che nessun uomo potrebbe affrontare, altre che giocano a scacchi meglio dei migliori campioni, altre ancora che decrittano codici impenetrabili alla mente umana, ma questa non è intelligenza, questa è tecnica. Sofisticatissima, elegantissima, ma pur sempre tecnica. L’intelligenza umana – che, presuntuosi come siamo, siamo convinti che i robot ci invidino – è altro rispetto alla produzione automatica e mimetica di comportamenti cosiddetti intelligenti. L’intelligenza è comprensione, empatia, sconforto, consapevolezza, stupore, angoscia, estasi e mille altri stati mentali che connotano l’esperienza di una vita ma anche di un solo, singolo, istante. Datemi un robot capace di guardare un cielo d’estate e scoprirsi leggero di fronte a tanta bellezza nonostante abbia appena litigato con la sua compagna per una stupida questione di vestiti lasciati sul divano, indizio – ora lo capisce – dell’imminente capolinea del rapporto, una rivelazione che gli accende dentro una tristezza infinita che, però, porta con sé una disperata esaltazione di libertà, e così, senza nessuna ragione, strappa un ciuffo d’erba e poi si mette a piangere. Datemi quel robot, insieme a uno che non veda l’ora di condividere un segreto, che cerchi consolazione, che veda un cane in un angolo ad aspettare la padrona e non resista al carezzarlo.

No, i robot non sono cambiati rispetto a quando li immaginavamo da bambini; è la nostra intelligenza adulta che ha imparato nuove forme di malvagità e proietta le sue perversioni su quei poveri fantocci fantasticando i mille modi in cui ci distruggeranno, mille modi dietro ai quali si nasconderà sempre e comunque la mano umana. I robot restano la meravigliosa possibilità di riscattarci da attività che hanno distrutto intere generazioni di lavoratori, costretti a ripetere un gesto, uno solo, sempre quello, per ore e ore e una vita intera. I robot restano la concreta speranza di eccellere in compiti che non sapremmo come condurre, che siano operazioni chirurgiche delicatissime o complicati calcoli scientifici. I robot restano strumento, espediente, progresso, libertà.

Poi, lì a fianco, se ne saremo capaci, ci saremo noi, a tenere la mano di qualcuno che ci ha voluto bene.

Federico Baccomo

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