Per un’architettura del futuro, contro le élite | CIVIC 7

Enrico Ratto dialoga con Mario Cucinella

Le città sono un grande laboratorio sperimentale dall’esito per niente scontato. Sono i luoghi dove le domande cambiano continuamente, dove l’urbanistica – e la politica – deve mantenere l’equilibrio tra flessibilità sul breve periodo e visione sul medio. Lo abbiamo vissuto durante gli ultimi due anni di Covid-19 e lo vedremo nel prossimo futuro, con gli obiettivi in materia di ambiente fissati per il 2030 e 2050. Urbanisti, architetti, persino costruttori, sono chiamati a intercettare questi cambiamenti. Mario Cucinella, insieme ai più di cento collaboratori dello studio MCA – Mario Cucinella Architects, è tra gli architetti più coinvolti per dare nuove chiavi di lettura a quei territori – complessi e interdipendenti – che vanno dal paesaggio urbano al borgo rurale. Lo abbiamo incontrato per chiedergli quali sono le grandi direttrici su cui ci muoveremo nei prossimi anni, anni di ricostruzione e di nuovi scenari.

Per quanto riguarda l’idea di comunità oggi otteniamo più risposte in un borgo da cinquecento persone o in una città da cinquecentomila abitanti?

Nel borgo, ma anche nei Paesi di cinquemila abitanti, c’è una auto-costruzione delle relazioni di vicinato, ci si conosce tutti. Ricordo che anni fa, in Inghilterra, c’era il community alert, la comunità si allertava quando in Paese arrivava una persona estranea. Ma penso che questo succeda anche nei quartieri di una città media, è nella natura umana il fatto di costruire delle relazioni sociali. Forse solo nelle città molto grandi viene esclusa la possibilità di costruire relazioni, sono i luoghi dove c’è più solitudine che condivisione, e qui sta il fallimento delle grandi città. Le grandi città sono diventate luoghi di discriminazione sociale, per cui o vivi all’interno di un certo contesto sociale ed economico, oppure sei emarginato. Nelle grandi città nascono relazioni più per affinità, i circuiti sono trasversali al vicinato. Nelle città più piccole, al contrario, c’è sempre una comunità vicina di supporto. D’altra parte, anche nelle città molto grandi, il modello è spesso diventato quello dei quartieri, dei municipi, insomma della frammentazione in ambienti più piccoli e di prossimità.

Parlando del suo metodo di lavoro, lei ripete spesso che crede nell’empatia, nelle connessioni, nell’intelligenza collettiva. Questo era anche il sogno delle città articolate e complesse, ovvero raggiungere un risultato che fosse superiore alla somma degli addendi. La fuga dalle città è una rinuncia all’intelligenza collettiva, significa costruire un sistema in cui prevale l’individuo?

I borghi hanno senso se riescono a dare una continuità, non se si formano come luogo di élite, un luogo per chi vuole trascorrere qualche giorno in campagna. Non è così che creiamo una comunità. Il rilancio delle aree interne è una cosa più complessa di come ce lo hanno raccontato, passa anche attraverso tutti quei lavori che riescono a creare un sistema economico, penso ai lavori legati all’agricoltura o alla manifattura. Non puoi solo creare degli ambienti astratti ed elitari».

In urbanistica, si è tornati a parlare di un concetto molto italiano: la piazza. È un elemento osservato con interesse da architetti e urbanisti di tutto il mondo. Come mai la piazza è diventata un’idea così contemporanea?

Le piazze nascono in un momento in cui si è passati dal feudalesimo alla democrazia. Erano i luoghi dell’incontro, del dibattito politico, del mercato, dello scambio. Sono nate per dare una risposta a una nuova struttura della società. Gli urbanisti contemporanei hanno però fatto un grande errore: hanno preso l’aspetto estetico e non l’aspetto sociale della piazza. Le piazze nascevano da un desiderio sociale, non da un desiderio estetico. La piazza è il luogo in cui si discute, si anima la comunità, è il luogo per eccellenza della socialità. In periferia spesso mancano i luoghi di socialità come il mercato, i negozi, i bar, i ristoranti intorno a un unico centro. Sono luoghi che hanno bisogno di cure più di ordine sociale che architettonico, e la piazza è uno strumento molto potente

Nel suo ultimo libro Il futuro è un viaggio nel passato (Quodlibet, 2021) lei scrive che «costruire in risposta alle condizioni esistenti significa rinunciare a una opportunità». Un’architettura di reazione non genera risposte utili?

Oggi l’architettura è un grande mercato economico, che negli ultimi anni è diventato quasi esclusivamente finanziario. È diventata uno strumento di investimento e sono state fatte molte cose non sempre necessarie, abbiamo costruito molto senza averne così bisogno. Ma, nel frattempo, noi abbiamo bisogno di spazi, di scuole, di musei, di stazioni, insomma l’architettura, per essere completa, deve rispondere anche a bisogni di natura sociale. Quando l’architettura risponde a una domanda in maniera parziale, ovvero solo alla domanda finanziaria, si rischia di perdere il rapporto con la cittadinanza e con la memoria dei luoghi. Oggi si ammirano i grattacieli moderni, ma mi chiedo se la gente ci si riconosca. Dobbiamo chiederci sempre quale direzione vogliamo prendere quando iniziamo a costruire.

Nel suo ultimo libro Il futuro è un viaggio nel passato (Quodlibet, 2021) lei scrive che «costruire in risposta alle condizioni esistenti significa rinunciare a una opportunità». Un’architettura di reazione non genera risposte utili?

È il grande dibattito del momento. Sicuramente è difficile dire a un Paese che sta crescendo a doppia cifra che deve smettere di crescere. Soprattutto se a dirglielo è chi, come noi, è già cresciuto moltissimo in altre epoche. È sempre difficile esportare i modelli, qualsiasi modello, in luoghi dove le strutture sociali sono così diverse. Prendiamo per esempio il tema della deforestazione dell’Amazzonia, l’unico modo per fare in modo che Bolsonaro smetta di tagliare le foreste è pagare. Perchè non possiamo dimenticare che noi europei, per secoli, per crescere abbiamo tagliato foreste. Allora, in qualche modo dobbiamo restituire. L’Europa è cresciuta per cinquecento anni grazie a risorse provenienti dal resto del mondo. D’altra parte, quello che può funzionare è mostrare ad altri Paesi che intorno alle nostre politiche ambientali stiamo costruendo una nuova cultura, una nuova legislazione, una nuova informazione, e che tutto questo può essere utile anche ad altri modelli di crescita.

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