Viva la resistenza | Bianca Felicori su CIVIC 7

di Bianca Felicori

In due anni si sono velocizzati processi, resi improvvisamente evidenti da necessità e problematiche che a lungo sono state oggetto soltanto di dibattiti specialistici. Oggi i luoghi, l’abitare e la comunità “che da questi viene generata” sono quotidianità, anche grazie alla forza di guardare con occhi nuovi l’esistente.

Resistenza, dal latino tardo resistentia, derivato di «resistere», è una delle parole che più abbiamo sentito pronunciare negli ultimi due anni. Da quando una pandemia mondiale ha colpito l’intero globo, questa parola è stata più volte utilizzata anche dai media insieme all’altrettanto speranzoso e abusato termine “resilienza”. Resistenza è un vocabolo il cui significato cambia in base alla disciplina in cui viene utilizzato – dalla storia all’urbanistica, dalla fisica allo sport, dalla legislazione all’idrodinamica – ma il cui valore resta immutato e si può riassumere con un’immagine brillante, quasi una sensazione di energia che si sprigiona nell’aria ogni volta che lo sentiamo pronunciare. Resistere significa non darsi per vinti, lottare; significa tendersi all’infinito per raggiungere un obiettivo, per quanto esso possa sembrare lontano. Significa combattere contro un nemico spesso molto più grande di te e capire che ciò che inizialmente sembra impossibile può diventare realtà.

Gli ultimi due anni hanno inevitabilmente scosso la coscienza collettiva ma è difficile parlare di una vera e propria rivoluzione antropologica, poiché in due anni non è possibile cambiare una società. Tuttavia si può affermare che ogni singolo cittadino – sia esso europeo, americano o asiatico – probabilmente ha cambiato il modo di vivere sia nel suo spazio privato che in quello pubblico. È cambiato proprio il modo di vivere lo spazio a ogni scala: dalla propria stanza all’appartamento, dal terrazzo al giardino, dal parco alla città, dalla città al territorio. Architetti e progettisti sono abituati a leggere in tali termini i confini spaziali imposti dalle leggi urbanistiche e territoriali, eppure per molti è stata una vera e propria scoperta, tanto è vero che gli architetti più in voga del nostro tempo, come Stefano Boeri, hanno proposto al pubblico italiano soluzioni abitative e urbanistiche in cui tutti sono stati in grado di riconoscersi, indipendentemente dalla loro professione. Perché l’uomo dopo un evento così eccezionale ha capito in che modo “sta” nello spazio, nel vero senso della parola, ovvero come un “esserci” ed “esistere” nel mondo. Da questa consapevolezza sono nate delle teorie interessanti che sono solo la punta dell’iceberg delle tante ricerche portate avanti negli ultimi decenni soprattutto nelle scuole di architettura e urbanistica. È doveroso citare inoltre la riflessione di Boeri sulla valorizzazione dei borghi storici nazionali e internazionali per salvare le metropoli stesse dalla congestione, trasformando una crisi sanitaria in un’opportunità da sfruttare. Lo stesso vale per il suo modello della città del futuro: green, con tetti-giardino connessi tra loro e servizi raggiungibili a piedi o in bici.

È legittimo quindi poter parlare di una parziale rivoluzione antropologica nonostante, come si è detto in precedenza, non si possa essere così tanto ottimisti da pensare di poter cambiare una società, per molti versi profondamente malata, in così poco tempo. Eppure questa pandemia ha portato a galla, accelerando i processi, temi che probabilmente sarebbero rimasti nel dimenticatoio per tempi incalcolabili. In Italia, per esempio, si è verificato un fenomeno che potremmo definire come “disincanto della metropoli”. Abbiamo iniziato a chiederci, dopo tanto tempo, se è veramente necessario rimanere congestionati all’interno di nuclei urbani, se dobbiamo andare a lavoro o possiamo comunque portare avanti i nostri obiettivi a distanza, se è giusto vivere in un ambiente fortemente inquinato o se abbiamo bisogno fisicamente e mentalmente di evadere dalla città. Tutti questi ragionamenti hanno portato i media a ripristinare antiche teorie sull’evoluzione urbana da cui poi sono nate nuove concezioni delle metropoli e nuove prospettive per il futuro del Pianeta. Molti architetti e urbanisti hanno sottolineato la necessità di estendere il tessuto urbano e dilatarlo nello spazio, alcuni hanno immaginato una città diffusa nel territorio che non sia né città né campagna, altri invece soluzioni in cui si elimina l’idea di città come centro urbano legato a una molteplicità di funzioni, economiche, sociali, culturali, religiose, amministrative, sanitarie.

Questo modo di ripensare lo spazio a ogni scala ha portato all’esaltazione di quelle che sono le realtà che da anni resistono in territori meno urbanizzati del nostro Paese. Come per esempio Farm Cultural Park, un incredibile progetto di recupero urbano di alcuni edifici preesistenti a Favara, in provincia di Agrigento, che sono stati trasformati in un centro culturale che ospita mostre e residenze d’artista. Nato nel 2010, Farm è un vero e proprio progetto non solo di resistenza territoriale ma anche una dimostrazione di come un recupero puntuale dell’esistente possa diventare un punto di partenza per una nuova rinascita. Farm ha una storia commovente ed è il progetto di Florinda e Andrea che hanno lasciato Parigi per tornare in Italia e creare questo posto incredibile per far crescere le proprie figlie in un contesto stimolante e creativo. Farm Cultural Park è stata anche la reazione dei suoi fondatori al tragico crollo avvenuto a Favara all’inizio di quell’anno, in cui persero la vita tragicamente due bambine: l’evento sconvolse tutta la comunità favarese e spinse la coppia di professionisti ad anticipare il progetto di due anni.

Poi esistono tantissimi progetti di ago-puntura urbana, vere e proprie forme di resistenza innescate da coloro che hanno saputo far nascere progetti partendo da principi come recupero, inclusione e solidarietà verso i cittadini. Come il DumBO, un progetto di rigenerazione urbana condivisa poco distante dal centro storico di Bologna. DumBO, che sta per “Distretto urbano multifunzionale di Bologna”, è uno spazio di rigenerazione urbana temporanea in cui imprese, associazioni, istituzioni e cittadini convivono, collaborano e si contaminano. Capannoni e aree aperte sono stati convertiti in spazi destinati a cultura, arte, innovazione sociale, lavoro, musica e sport per attività trasversali e sempre diverse, in stretta relazione con il territorio. O come il MAD-Murate Art District di Firenze, un centro di ricerca e produzione artistica per la città e sulla città, che propone mostre, incontri, performance e workshop centrati sulle tematiche e i linguaggi artistici del contemporaneo, con un taglio fortemente interdisciplinare.

Grazie a progetti come questi, spazi in disuso disseminati nelle città hanno ripreso vita e sono diventati qualcos’altro, con nuove funzioni e nuove utenze. Sono progetti come questi che ridefiniscono le sorti delle aree in cui sono stati attivati creando nuovi flussi. Resistenza urbana nel vero senso della parola, che non vuole espandere lo spazio, non vuole costruire ex novo, quanto piuttosto riappropriarsi dello spazio per restituirlo ai cittadini, accendersi come luci nella città e nel territorio per innescare nuovi meccanismi sociali e politici.

Il nuovo numero della rivista CIVIC è dedicato agli spazi. Quelli fisici, quelli del noi, quelli partecipati. Quelli che stanno nel nostro cuore, e dove tira sempre il vento, come scriveva Lucio Dalla, perchè parlano di noi e sono riflesso delle connessioni che stabiliamo, con gli altri e la natura.

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